giovedì 1 settembre 2016

Il mio ricordo di un altro devastante terremoto.....

Dopo la fase più acuta del dolore.... quella dei ricordi.
Nel tardo pomeriggio di domenica 23 novembre del 1980, un devastante terremoto nell'Irpinia e nella Basilicata, causò quasi 3.000 morti e la distruzione pressoché totale di centinaia di paesi.
Il Lunedì mattina Vigili del Fuoco, Comune e l'Usl di Lucca organizzarono una colonna di soccorso per le zone terremotate ed io, all'epoca amministratore dell'Ospedale di Lucca, assieme al collega Bullentini, ci mettemmo in marcia su una scassata 500 Fiat, portando un ospedale da campo e una quarantina fra medici chirurghi, infermiere, allieve della scuola infermieristica e due Suore, dei reparti ospedalieri.
I Vigili del Fuoco con le loro camionette, guidavano il convoglio che discese faticosamente la penisola, verso Sud. A mezzanotte arrivammo al Casello Autostradale di Avellino, dove ci fermammo alcune ore, in attesa dell'alba, perché i Carabinieri ci sconsigliavano di viaggiare di notte su strade e ponti disastrati. Fummo fra i primi soccorritori ad arrivare sul posto e tantissima era la confusione.
Una notte insonne perché le continue scosse di assestamento facevano "ballare" la cinquecento dell'Usl, non certo per i felici ricordi dei vent'anni.
All'alba iniziammo a risalire le valli dell'Iripina in uno spettacolo impressionante, le strade gravemente dissestate, i paesi distrutti, superstiti che vagavano atterriti a bordo strada.
Non ci fu possibile raggiungere il luogo che ci era stato assegnato, i Carabinieri ci sbarrarono la strada per un ponte pericolante e ci indirizzarono verso Calabritto, dove non era ancora arrivato nessuno.
Dopo decine di chilometri attraversando un paesaggio lunare ci attestammo al Campo Sportivo di Calabritto, che era in basso, dominato non più da un piccolo ridente paese, ma da un cumulo enorme di macerie: nulla era rimasto in piedi, se non qualche ala diroccata. Ci furono solo a Calabritto un centinaio di morti.
I nostri Vigili del Fuoco e gli Operai Comunali iniziarono a scalare le macerie del Paese, che non aveva più la strada centrale, su cui si erano, nei secoli, sviluppate le case: tutto era distrutto.
Noi dell'USL ci mettemmo a montate la tenda dell'Ospedale da campo, che in breve divenne il punto di ritrovo delle persone del posto, che erano sopravvissute al sisma. Era impressionante vedere la loro compostezza e dignità, nel fare la fila per la prima assistenza, come fantasmi ricoperti di polveri bianche impastate con rosso del sangue.
I nostri Medici e le Infermiere iniziarono la loro opera che sarebbe durata giorni e notti a venire, con dedizione e professionalità.
Vigili e Operai assieme ai Volontari, scavavano a mani nude, notte e giorno a turno. Il lavoro di Bullentini e mio era relativo, portavamo l'acqua e i panini ristoro a chi scavava, cercavamo il cibo per tutti, nei paesi vicini, dato che le nostre riserve erano costituite da poche scatolette di carne militare, di non so quale guerra.
Di giorno il tanfo della morte ammorbava l'aria, di notte il buio sulle macerie era spettrale, poche luci artificiali illuminavano gli scavi. Nelle tende da campo, a turno, dormivamo vestiti sulle brande, da dove spesso cascavamo in terra nel sonno per le violente scosse di terremoto, atterriti dai sordi rumori che scaturivano dalla terra martoriata.
Un ricordo su tanti: una donna, che le squadre di soccorso non riuscivano ad estrarre dalle macerie, in bilico sul burrone sottostante, perché aveva una gamba incastrata nel profondo, tanto che qualcuno chiese ai nostri medici di prepararsi ad amputarla sul posto, generando apprensione e sgomento in tutti noi.
Grazie a Dio arrivò una nuova squadra e una troupe televisiva locale e le due cose aiutarono a continuare a scavare, sia pure con grave rischio, ma per una soluzione meno traumatica: dopo molte ore, fu possibile liberale la povera donna e anche le nostre...coscienze....
Dopo arrivò l'esercito, con la sua cucina da campo e con una squadra genieri che realizzò prontamente un pista di atterraggio elicotteri. Due cose che risolsero i maggiori problemi: i feriti più gravi venivano trasportati via aerea agli ospedali napoletani, il mangiare per i superstiti e per le persone delle nostre squadre non fu più un problema.
Dopo un settimana il nostro compito di pronto intervento era pressoché esaurito e riprendemmo la via di casa, attraversando decine di paesi distrutti, ma in cui si vedeva finalmente un accenno di organizzazione nei soccorsi, che fu invero giudicata, a posteriori, poco tempestiva e molto disorganizzata.
Tutte le volte che vado al Sud, nelle terre di origine della mia famiglia, mi viene voglia di tornare a Calabritto per vedere come è stata ricostruita, ma il ricordo di quei brutti momenti, di quei morti, delle persone coperte di calce e di sangue, mi fa sempre desistere e non vado......chissà mai se un giorno troverò il coraggio.

francesco colucci





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